LA COOPERAZIONE AGRICOLA ALLA PROVA DELLO SVILUPPO IMPRENDITORIALE

I modelli di cooperazione allo sviluppo sono in una fase di trasformazione. L’esperienza italiana del settore cooperativo e delle cooperative può dare un contributo a questo cambiamento


Gli aiuti allo sviluppo cercano nuove strade. Agenzie statali e organizzazioni non governative hanno seguito per decenni un copione consolidato, utilizzando schemi di intervento in cui la dimensione imprenditoriale era contemplata solo marginalmente. Salvo prendere atto a posteriori che i risultati prodotti erano molto inferiori alle aspettative e che le economie dei paesi in ritardo di sviluppo oggi hanno preso a crescere solo in minima parte per l’effetto della cooperazione internazionale. Logico quindi che tra ONG e donatori si sia diffusa l’esigenza di nuovi modelli di intervento.

La priorità che oggi calamita l’attenzione degli operatori si chiama sviluppo imprenditoriale. A ciò si collega un movimento di riconversione degli obiettivi di investimento verso progetti che privilegiano la capacità di produrre impatto su vasta scala (il cosiddetto impact investing). Di qui l’interesse per tutte quelle attività capaci di svilupparsi secondo una logica imprenditoriale, perché replicabili più facilmente e su dimensioni più ampie. Quindi, piuttosto che una miriade di micro-interventi, progetti di scala più grande diretti a creare le condizioni per la crescita di soggetti con capacità autonoma di sostentamento economico.

Questa nuova tendenza si declina principalmente in programmi per la creazione di filiere produttivo-commerciali (mirati ad aggiungere valore alle micro-attività d’impresa per favorirne la crescita dimensionale) e conseguentemente in programmi di assistenza mirata al rafforzamento delle imprese (in termini di Business Development Services, erogati da soggetti for-profit specializzati che sono chiamati ad affiancare ONG e donatori nei loro interventi).

In questo quadro, che certamente rappresenta un’evoluzione positiva perché si emancipa da un approccio essenzialmente assistenziale alla cooperazione allo sviluppo, accade tuttavia un fatto rilevante: tra le agenzie e le fondazioni che più contribuiscono ai programmi di cooperazione allo sviluppo si stia diffondendo un giudizio critico nei confronti del modello cooperativo, in particolare nel contesto dello sviluppo agricolo dei paesi africani dove questa forma di impresa partecipata da una pluralità di produttori si è diffusa soprattutto nelle aree più svantaggiate, dove la maggior parte degli investimenti agricoli non sono alla portata del singolo contadino.

Alle cooperative viene imputata infatti la tendenza a subire un eccesso di condizionamento da parte delle istituzioni pubbliche e più in generale una dipendenza dai soggetti che erogano i finanziamenti, con annessa permeabilità a fenomeni di corruzione.

Questa situazione produce a sua volta una scarsa reputazione del sistema cooperativo, che induce i piccoli contadini a servirsene in termini strumentali, adottando spesso pratiche opportunistiche. La cooperativa in tal modo viene percepita come uno dei possibili canali di commercializzazione cui rivolgersi secondo una logica di massimizzazione del beneficio economico, o tuttalpiù come agente di bargaining per fissare le migliori condizioni di vendita, rispetto al quale però il contadino-socio non si considera vincolato, qualora si presenti l’occasione di concludere direttamente i propri contratti di fornitura. Con evidenti effetti negativi anche sulla certificazione di qualità del processo produttivo e, più in generale, sulla capacità delle cooperative di aderire ad un approccio orientato al business development.

Ragion per cui le organizzazioni internazionali e i donatori in questa fase sono portati ad esplorare forme alternative, più centrate sull’azione di imprenditori individuali.

Tuttavia l’efficienza di queste forme di impresa è ancora tutta da dimostrare, specialmente nel contesto africano. Malgrado carenze e difetti il modello cooperativo non sembra infatti facilmente sostituibile in tutte le situazioni in cui i piccoli contadini non appaiono in grado di fronteggiare da soli la forza delle grandi organizzazioni commerciali, con la loro assai poco arginabile tendenza al cherry picking. La transizione verso un modello di intervento più orientato alle imprese individuali sembra inoltre rallentata anche dalla preferenza che i grandi buyers internazionali comunque esprimono nei confronti dell’interlocutore cooperativo, in quanto soggetto al quale è più facile trasferire la funzione di risk management nel rapporto con i piccoli produttori.

Quindi, al momento, l’opzione per un maggiore supporto alle imprese individuali resta un obiettivo programmatico, la cui effettiva realizzabilità non è affatto scontata. Mentre, per contro, il modello cooperativo mantiene un potenziale vantaggio, a condizione che si dimostri in grado di risolvere i problemi che condizionano l’effettivo sviluppo della sua capacità imprenditoriale.

Il punto consiste quindi nell’individuare gli strumenti per favorire una maggiore “imprenditorializzazione” delle cooperative agricole africane (ma questo approccio può valere anche per altri contesti, come quello sudamericano), in modo da renderle capaci di presentarsi sui mercati con strutture maggiormente integrate dal punto di vista produttivo e più autonome finanziariamente. La trasformazione delle cooperative da soggetti di sola commercializzazione (cui rivolgersi in base alle convenienze individuali) a strutture di valorizzazione di tutta la filiera produttiva con un approccio più estensivo, che includa tutte le fasi di un processo di produzione agricola certificata e di commercializzazione autonoma, richiede lo sviluppo di appropriate regole di appartenenza, verifica qualitativa, conferimento del prodotto, e gestione della filiera.

Sono temi non nuovi per la cooperazione agricola italiana, che nel corso del suo sviluppo centenario ha dovuto inventare soluzioni organizzative e istituzionali per risolvere molti dei problemi che oggi frenano la crescita dell’agricoltura cooperativa nei paesi in via di sviluppo. L’esperienza del nostro paese può servire a mettere a punto quelle nuove strategie di cooperazione allo sviluppo che agenzie internazionali e ONG cercano allo scopo di incrementare l’impatto dei propri interventi. Nell’anno di EXPO, anche questo potrebbe essere un contributo del nostro paese allo sviluppo di pratiche agricole e di filiere alimentari più sostenibili.

Gianluca Salvatori – Presidente di Euricse – per La Stampa

02/02/2015

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